lunedì 20 aprile 2020

SYAT E GLI ESPERTI.

Nel post che è dedicato alla pratica del Syat, avevamo descritto come avvengono le grandi manipolazioni e come difenderci da esse. 

Vi invito pertanto a rivedere il post e la pratica dei vari "non conforme", soprattutto quello dedicato al santo jainista Bahubali.

In tale pratiche abbiamo imparato a diffidare degli schieramenti e a vedere come dietro di essi si annida una facile manipolazione.
Oggi applicheremo tale diffidenza verso i cosiddetti  esperti.
Lo faremo con l'aiuto di un vecchio libretto pubblicato nel 1993 dal titolo: "L'esperto è nudo"  di Brian Martin.

È un testo molto breve che meriterebbe delle integrazioni che via via provvederò a fare.
Nella sua brevità è però un testo assai interessante per vagliare il peso degli esperti.
Il vaglio passa attraverso quattro punti.

A questi quattro punti viene avanzata una premessa: il ruolo di esperto è già di per sé dubbio, in quanto "esperto" è una qualifica avanzata e sostenuta da un certo establishment, che di per sé ha degli evidenti interessi in campo.
Nella premessa l'autore risponde anche alla domanda se per valutare gli esperti dobbiamo essere anche noi esperti. Si e no, è la risposta, ovvero dobbiamo imparare ad essere in qualche modo "esperti" nel gestire le argomentazioni avanzate dai suddetti esperti.

Veniamo ora ai punti di criticità individuati nel testo.

1). Verifica dei dati.
Come sono stati raccolti, se sono coerenti, a cosa si vogliano associare.
Il dato grezzo non dice nulla. I dati devono essere raggruppati in una specie di rappresentazione.
Quindi si passa alla verifica dei dati ed eventuali interpretazioni alternative.

2). Mettere in discussione i postulati da cui gli esperti partono. 
Normalmente i postulati sono uno strano miscuglio di valori,  considerazioni date per scontate ma non dimostrate. e astrazioni ricavate da alcune discipline scientifiche.
I postulati sono in genere il ventre molle dell'esperto.
In genere è facile mostrare la debolezza di certi postulati, e far emergere postulati nascosti paradossali.

3). Valutare la figura del singolo esperto.
I suoi interessi: personali, di gruppo, di categoria, di ideologia, etc.
Vedere anche se le ricerche che propone sono le sue o di collaboratori che magari sfrutta, e se manipola le conclusioni per portare avanti le sue tesi.
Valutare l'attendibilità: se in passato si è sbagliato è probabile che lo faccia ancora.

4). Smontare il mito delle competenze. 
Siamo proprio sicuri che i suoi titoli siano attinenti o del tutto attinenti all'argomento che sta trattando? Domandiamoci cosa ne pensano del tale argomento studiosi di formazione diversa.
I cosiddetti esperti poi, lo sono in genere solo relativamente a settori molto limitati della loro disciplina; non è detto quindi che lo siano in settori più ampi.

Questi secondo l'autore sono i quattro punti da vagliare.
Nei prossimi post aggiungerò delle mie osservazioni. Per ora pratichiamo il può essere (Il Syat), usando questi quattro criteri uniti a quanto già abbiamo imparato, e applichiamolo per valutare i vari "esperti" che spopolano in tv e non solo.
Buon Syat.

Straf.

sabato 18 aprile 2020

TOTO', P.P.P. E ALTRE PINZILLACCHERE

Viene spontaneo chiedersi cosa avrebbero detto oggi due personaggi come Totò e Pier Paolo Pasolini, due grandi che, se non si capivano, s'intendevano. 

Non si capivano perché entrambi sapevano bene quanta imbecillità ci potesse essere nelle espressioni: "io ti capisco". Nella ragione data ai fessi. 
Totò lo ha sempre ribadito: "...E che... so' fesso io?". 
No, non si capivano ma s'intendevano, intendevano cioè i loro intenti, la loro arte, l'irrimediabile e "straziante bellezza del creato" (da "Le Nuvole").

Cosa avrebbero detto di tutti costoro che fanno passerella in tv dicendo di aver capito tutto, solo per essere smentiti 48 ore dopo?

Totò avrebbe detto: "Ma ... mi faaaccciia il piacere, mi faccia. Si qualifichi, chi è lei...  A sì, mi rifaaacciiia il piacere. S'informi e cambi i suoi modi che sono interurbani!" 

E P.P.P.? Avrebbe denunciato con meticoloso puntiglio l'ignoranza di queste vedette da 4 soldi di politici, esperti e funzionari.
Uomo odioso al potere P.P.P., con la sua memoria pronta a scandagliare il tempo. Memoria sagace e sapiente, in grado di dare sapore alla vita, una vita che vogliono negarci.

Uomo odioso al potere P.P.P,  con la sua capacità di scorgere le varie sfumature della violenza. Invito a rivedere il film di Abel Ferrara dove W. Defoe interpreta in modo impressionante P.P.P. e ricostruisce in una intervista il suo pensiero sulla violenza.

Ne sentiamo la mancanza di questi due persone. Ma la dimensione sapienziale usa la memoria come grande facoltà. 
Non ascoltiamo il chiacchiericcio che ci circonda. 
Leggiamo P.P.P. o ascoltiamolo in qualche registrazione. Guardiamo Totò magari in "Uccellacci e uccellini" o ne " "Le Nuvole" (episodio del "Capriccio all'italiana").
E domandiamoci cosa avrebbero detto e fatto. 
Proviamoci.

Straf.

sabato 28 marzo 2020

SENZA SCUSE

Ieri il Papa ha fatto una cosa veramente epocale. Non so però quanto compresa. Ha indetto una indulgenze plenaria senza condizioni. 

L'unica condizione è: "basta volerlo!". 
Cosa significa? Vuol dire che ogni legame con il peccato, la colpa ed il senso di colpa  sono stati svincolati dalla nostra condizione. Siamo stati sciolti (absolvo) sciolgo. 
Basta volerlo. 

Siamo giustificati ma sono finite le giustificazioni (scuse) per non essere giusti. 
Non abbiamo più scuse per non fare il nostro "giusto". Basta volerlo.
L'evento eccezionale rende vana ogni scusa.
Siamo tutti giustificati ma senza più scuse. 
Basta volerlo. 

Questo vale per tutti. Viene meno anche la distinzione tra credenti e non. 
Dire: "Non sono credente" è una giustificazione, una scusa, non regge più. 

Siamo giustificati ma sono finite le giustificazioni, le scuse. È solo una questione di volontà. Basta volerlo. Dipende da noi. 

Fa tremare le vene ed i polsi questa responsabilità. Ma non abbiamo scelta.


Straf.

martedì 10 marzo 2020

DON FERRANTE, QOELET, SIRACIDE ED IL MORBO.

"La c'è pur troppo la vera cagione" ... " e son costretti a riconoscere anche quelli che sostengono poi quell'altra cosa così in aria... La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai si è sentito dire che le influenze si propaghino?"

Così parla e continua l'indimenticabile Don Ferrante nel cap. XXXVII de I Promessi Sposi a proposito della peste.

In questi giorni ahimè i Don Ferrante hanno spopolato su ogni tipo di media, propinandoci la loro opinione sul morbo.
Hanno spopolato suscitando in noi minor simpatia del povero personaggio manzoniano poiché maggiore è la loro arroganza e la loro vanità.
A questi pontificatori del morbo si aggiungono poi i personaggi famosi della cultura che "filosofeggiano" sulla condizione umana riguardo alla drammatica vicenda.

Ahimè.
Libera nos a malo, Domine.
Ci rifilano le loro banalità con supporto visivo diffuso su you tube.
Non scrivono poiché il supporto visivo è fondamentale: caricano ogni parola di espressione faticata come se stessero defecando con immane sforzo oppure con immagine sollevata per aver compiuto l'impresa.
Già, il pensare, anche cose banali gli cosa fatica: ma un po' di fatica è necessaria per alimentare la vanità di apparire.

Hebel (vanità) Dice il Qoelet.
Tutto è vanità in questo mondo.
Qoelet 1.
La dimensione sapienziale non si fa sviare da codesti vanitosi maestri della posa pensosa defecatoria.
La dimensione sapienziale sa che c'è:
un tempo per abbracciare ed un tempo per astenersi dagli abbracci
Qoelet 3, 5. 
Sappiamo che ci sarà anche un tempo per ricostruire, in silenzio, ora ci prepariamo a quello.
Nel frattempo, seguiamo le istruzioni.
Quali?
Quelle dei media?
Si, forse...
Ma c'è di meglio: le istruzioni di uno scriba di duemiladuecento anni fa, conosciuto come figlio di Sirach.
Non c'era tv, non c'era la rete, non c'erano i social.
Funzionavano però.

Onora il medico come si deve secondo il bisogno,
anch'egli è stato creato dal Signore.
Dall'Altissimo viene la guarigione,
anche dal re egli riceve doni.
La scienza del medico lo fa procedere a testa alta,
egli è ammirato anche tra i grandi.
Il Signore ha creato i medicamenti dalla terra,
l'uomo assennato non li disprezza.
...

Dio ha dato agli uomini la scienza
perché potessero gloriarsi delle sue meraviglie.
Con esse il medico cura ed elimina il dolore
e il farmacista prepara le miscele.
Non verranno meno le sue opere!
Da lui proviene il benessere della terra.
Figlio, non avvilirti nella malattia,
ma prega il Signore ed Egli ti guarirà.
Purificati, lavati le mani;
monda il cuore da ogni peccato.
Offri incenso e un memoriale di fior di farina
e sacrifici pingui secondo le tue possibilità.
Fa' poi passare il medico.
Il Signore ha creato anche lui,
non stia lontano da te, poiché ne hai bisogno.
Ci sono casi in cui il successo è nelle loro mani.
Anch'essi pregano il Signore
poiché li guidi felicemente ad alleviare la malattia
e a risanarla, perché il malato ritorni alla vita.
Siracide 38; 1-15.


FINE

Straf.

martedì 3 marzo 2020

SAPORE D'ARTE

Anche stavolta iniziamo con una domanda secca: abbiamo un luogo dove abitare in pace?
Per luogo non intendo la propria casa ma la propria città, il proprio spazio urbano.
Riformulo quindi la domanda: abbiamo un posto nella nostra città che ci fa sentire a casa ed in pace?
Un luogo dove assaporiamo il gusto della nostra città?
Questa domanda che forse non ci siamo mai posti fa nascere una serie di riflessioni.

Riflessioni che sottendono ad altre domande; una di queste è: qual è il nostro rapporto con l'eredità culturale delle nostre città?
Qual è il nostro rapporto con gli spazi architettonici: piazze, strade, ponti, vedute; con gli edifici: chiese, palazzi, torri, conventi, fortezze, etc.; con i "riempimenti vari": fontane, colonne, monumenti, statue, etc.  ed ancora, con i luoghi adibiti alla conservazione e alla diffusione della cultura: musei, biblioteche, teatri e simili?
Ci sentiamo eredi del nostro passato?
E da questo passato siamo in grado di proiettare un futuro nuovo per noi e per le future generazioni?
Ho i miei dubbi.
  
Ma cosa vuol dire essere eredi? Nietzsche ci mette in guardia: ereditiamo anche le follie.
Credo che noi siamo dei cattivi eredi.
Vediamo perché.

Esiste una grossa bufala sul patrimonio artistico italiano.
Di volta in volta si dice che in Italia vi sia l’ 80% o il 70% o il 50% del patrimonio artistico mondiale. Il numero varia a seconda della idiozia che si vuole sostenere. A sostegno dell'idiozia di turno si spara la bufala percentuale di turno.
La cosa tragica è che nessuno contrasta tale bufala che oltre ad essere una bufala è un'idiozia evidente a chiunque.

E' un idiozia perché L'Italia non ha una stima precisa del proprio patrimonio artistico (quindi non sappiamo quanta "arte" ci sia in Italia) ma soprattutto non chiarisce in che modo e maniera si sia valutato (ammesso che sia possibile) il patrimonio culturale degli altri paesi; come se fosse una cosa da poco valutare il patrimonio di Egitto, Persia, India, Sud Est Asiatico ed Estremo Oriente, per non parlare ovviamente degli altri paesi europei. Insomma, il discorso percentuale non sta né in cielo, né in terra. Eppure, la bufala percentuale sopravvive. 

La semiotica ci insegna che le bufale sono significative.
La menzogna ha comunque un significato.
Esploriamo il significato di codesta bufala.
Connota il senso di che tipo di eredi siamo: distratti e sufficienti. Siamo così ricchi d'arte da non saperne  che fare.
Siamo o ci atteggiamo da "i più ricchi del mondo" di cultura ma in realtà di cultura siamo poveri.
Estremamente poveri.

Siamo poveri di cultura perché abbiamo trasformato l'arte in oggetto, in oggetto bruto senza spirito, quindi non la comprendiamo più.
Pertanto, di tale ricchezza non sappiamo che farcene, non sappiamo e non vogliamo averne più a che fare: un super mercato o un parcheggio è più apprezzato di una chiesa.
E' più apprezzato di una chiesa perché tutto il simbolismo che reca una chiesa ci è ormai ignoto: per comprenderlo dovremmo ritornare a scuola o rievocare gli antichi studi.
E noi non vogliamo tornare a scuola.
Il nostro motto è: "la scuola non serve a nulla!".
Si va a scuola solo per il pezzo di carta che a sua volta non serve a nulla, ma tant'è…  al titolo di dott. ci teniamo.


Lo stesso dicasi per la letteratura: non ci interessa più.
In molti paesi gli uomini politici fanno spesso riferimento ai classici della propria letteratura per risaldare lo spirito nazionale.
Gli uomini politici italiani no, è già tanto se si esprimono in un italiano comprensibile.

I film o serial televisivi americani che molti di noi, con sciocca alterigia disprezziamo, sono ricchi di riferimenti ai loro classici: Poe, Hawthorne, Whitmam, Melville, Twain, London, Scott Fitzgerald, Hemingway, tanto per dire i più noti.

Nei nostri no, sono finiti i tempi degli sceneggiati sui classici.
Sono finiti i tempi dei western all'italiana, spesso ritenuti impropriamente di serie B, dove gli autori s'ispiravano nel linguaggio e nei personaggi al Manzoni e spesso facevano qualche riferimento a Karl Marx. 
Se al cinema o in tv incontriamo qualche riferimento a Dante e la sua Commedia è di certo grazie ad un autore americano che ha letto Dante tradotto da Longfellow.     

Abbiamo accettato il fatto che l'arte abbia spesso divorato sé stessa.
Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini.
Recita il motto di Pasquino, quello che non hanno fatto i barbari lo fece la famiglia Barberini: antichi monumenti romani sono stati usati da cava per le opere rinascimentali.
Ora basta arte: che usino pure i monumenti attuali per cave di moderni super mercati con parcheggio adiacente poiché nella accidia sempre più diffusa, guai a camminare.

Non leggiamo le nostre città attraverso l'arte; le categorie di lettura sono emotivamente posteriori, spesso legate allo sviluppo economico.
Torino è la città fredda e industriale.
Milano è la città degli affari e della moda.
Genova è la città introversa dei mercanti parsimoniosi.

Esistono letture legate alla gastronomia od al folklore ma poche all'arte.
Persino Roma è più percepita come città della "dolce vita", del caos, dei politici e del Papa che per la sua arte.
Venezia per l'acqua alta ed il carnevale.
Anche Firenze, città d’arte per eccellenza, è spesso individuata superficialmente (e impropriamente)  come Rinascimentale ma di fatto non compresa per i suoi monumenti.

Quanti sono in grado di leggere emotivamente, con emozioni cioè storicizzate, il monito che monumenti come il Perseo del Cellini, il Ratto delle Sabine del Giambologna o L'Ercole e Caco di Baccio Bandinelli vogliono trasmettere?   
State certi che le vetrine di alta moda suscitano la maggior parte di emozioni, con grande rammarico di Stendal.

Eppure, questa incapacità di lettura è sintomo di una ferita.
Esistono traumi individuali e traumi collettivi.

La storia urbana è una storia collettiva di ferite e tentativi di risanamento.
E' il tentativo di rendere bello e pacifico uno spazio che spesso è stato conflittuale e violento.
All'arte è stato dato il compito di lenire, redimere, l'inaudita violenza della storia umana.
Violenza di cui l'arte è stata spesso parte in causa, sia per la vita violenta di molti artisti, sia perché l'artista una volta non era distinto dal costruttore d'armi e fortezze.

Nonostante ciò il valore salvifico della bellezza artistica rimane.
Dimenticare tutto ciò è nello stesso tempo dimenticare traumi e medicamenti.
Dimenticare tutto ciò, vuol dire dimenticare che lo spazio urbano e ciò che ci accoglie e ci cura.

Negare ciò ci porta ad andare incontro a nuovi traumi.
Il ponte Morandi di Genova è tragico simbolo di questo oblio.
Ci si è dimenticati che una città è fatta anche di collegamenti, di ponti.
E' ingenuo e stolto pensare che esista solo una "terapia" individuale per i traumi.

Esistono traumi collettivi: storici e geografici.
Per la dimensione collettiva è necessaria una "terapia" dell'anima urbana.
Ribadiamo la nostra definizione di anima: ciò che ci anima, ciò che ci rende vivi.

Cosa ci rende vivi nel nostro spazio urbano?
Quindi sappiamo nutrirci d'arte?
Sappiamo gustarci il sapore-sapienza dell'arte?
Proviamo, andiamo in giro per la nostra città.
Andiamo in giro con le nostre ferite, i nostri crucci e vediamo se la città ci risponde, ci sana, ci conforta.
E poi prendiamo un treno e andiamo in una città vicina, magari piccola; come ci accoglie alla stazione? Quale spazio ci offre?
Proviamo, facciamoci pellegrini dell'anima.
Pellegrini non turisti.
Pellegrini in cerca di risanamento.
Proviamoci. 


Straf.

lunedì 24 febbraio 2020

CANTA (INSIEME A ILDEGARDA DI BINGEN) CHE TI PASSA.

Domanda secca a bruciapelo: quand'è stata l'ultima volta che avete cantato in gruppo ad alta voce? Magari su di un prato, con un gruppo di amici e la chitarra, oppure in auto a squarciagola, durante un lungo viaggio seguendo la radio.

Pensateci, forse è trascorso molto tempo, forse troppo.

E poi, ancora vi capita di canticchiare da soli?
Avete mai cantato trasformando una canzone nota in una canzone comica o irriverente; per capirci avete mai trasformato "montagne verdi" in "lasagne verdi" o "passerotto" in "panzerotto"? E così via?

Qual è il vostro rapporto con il canto corale, collettivo? Inni nazionali, cori di opere liriche, Inni Sacri, Salmi, Gospel, Bhanjan, canti religiosi vari, canti di protesta, canti da lavoro e così via?

Pensateci, vi trovate a vostro agio in questi canti quando vi capita di ascoltarli? Vi unite al canto? Cosa provate? Sono emozioni positive di rigenerazione o no?
Possiamo dire che non è possibile una dimensione sapienziale senza la musica e soprattutto senza il canto.
Vediamo il perché.

Riprendiamo la nostra definizione iniziale di sapienza-sapore e rimarchiamola con una citazione.
Non il molto sapere sazia e soddisfa l'anima, ma il sentire e gustare le cose internamente. (Ex, Sp, 2,5).  
La frase è tratta dagli esercizi spirituali di Sant'Ignazio di Loyola (1491- 1556).

Avevamo definito anima con l'espressione generica: ciò che ci anima, ciò che ci rende vivi; l'anima quindi non aspira ad un sapere astratto e libresco ma aspira ad un sapere che sia gusto e sapore della vita stessa.
Ma cos'è che spesso rende la vita insipida e vuota?
Su questo praticamente tutte le tradizioni spirituali concordano: la separatezza.

Il sentirsi isolati, separati, non uniti, soli.
Dove per solitudine non significa semplicemente: "essere soli" ma isolati e rifiutati da ogni consorzio umano e naturale.

Una passeggiata tra i boschi in solitudine non significa essere soli, ma spesso provare il sentimento opposto: un profondo senso di comunione con tutta la natura.
Lo stesso dicasi nella lettura profonda, nella fruizione di un’opera d'arte, nella meditazione e nella preghiera.
In questi stati spesso l'anima gusta il sapore di una compagnia che la trascende.

L'essere soli quindi non coincide con una solitudine sociale, per quanto anche la compagnia sociale abbia la sua importanza.

La solitudine che ferisce l'anima ha a che fare con una solitudine esistenziale. Si manifesta quando l'anima si sente privata del gusto di far parte di qualcosa di più grande di lei: che può essere il divino, la natura, la comunità umana, la creatività, etc.
Non ci è dato di capire con esattezza perché ogni tanto proviamo questa privazione, forse fa parte di una condizione umana originaria, una sorta di "caduta" metafisica o altro.
Comunque esiste, è reale, si prova.

Quale rimedio a ciò?
Rivolgiamoci ad una grande maestra sapienziale del passato: Ildegarda di Bingen (1098 - 1179) santa, Dottora della Chiesa.

Questa santa visionaria descrive la sapienza con una bellissima immagine: quella del fazzoletto. La sapienza è infatti un dono di Dio simile ad un fazzoletto, un fazzoletto che deve essere dispiegato, da usare per poi avvolgere ogni cosa.
E cosa può avvolgere ogni cosa meglio della musica e del canto?

La riflessione della dottora va oltre: individua anche la causa del nostro senso di perdita e, anche in questo caso, la sua meditazione riguarda la musica.
Secondo Ildergarda la caduta di Adamo ha una connotazione precisa. 
L'essere umano, ad un certo punto, ha deciso di non partecipare più alla musica del creato, al gran concerto della natura, ma di staccarsi da esso. Ha deciso di osservare, non di partecipare. Ha deciso si essere un osservatore separato. Osservare per sapere senza far parte di.
E' questa la caduta.

Quindi non tanto un peccato di disobbedienza ma una tracotanza, una supponenza: pensare di conoscere rinunciando ad essere.
Dobbiamo tornare a far parte di quel concerto originario.
Dobbiamo ripristinare l'armonia universale e originale che abbiamo perduto.

Insomma, dobbiamo ritornare a cantare.

Da qui l'importanza del canto corale. 
Spiegare il fazzoletto della sapienza con il canto.
Quando possiamo e più spesso che possiamo cantiamo, cantiamo soprattutto in gruppo. Qualsiasi cosa ma cantiamo.

Assaporiamo il piacere del canto.
Magari anche ciò che la Madre Badessa ha composto e che ormai è disponibile in vari adattamenti moderni anche sul web.
Ildegarda infatti, ha composto e musicato inni, canti e preghiere.

Lei, grande maestra di sapienza, in alcune occasioni faceva si che le sue monache lasciassero il nero abito benedettino, per vestirsi di bianco, ornate di fiori, e cantassero in onore della luce.  
Fatelo anche voi: lasciate il nero abito delle preoccupazioni, del nero pensiero e della tristezza e cantate da soli o in gruppo, ma cantate.

E... divertitevi, lasciate sfogo al vostro inconscio: cambiate le parole di canzoni famose secondo il vostro istinto e vedete cose succede.
Lasciate che emerga l'aspetto più irriverente, più sconcio di voi, abbandonatevi all'effetto catartico di tale canto.
E dopo, grazie a questa liberazione, a  questa "dissacrazione", sarete in grado di "sacralizzare" e cantare gli inni sacri.
Allora vi sentirete leggeri, leggeri come una piuma sul respiro di Dio.


 Straf.

giovedì 13 febbraio 2020

IL CHIOSTRO INTERIORE. FUTURO E MANIPOLAZIONE

La pratica del non conforme, del Syat  e altre meditazioni descritte, ci hanno irrobustito di fronte ai vari tipi di manipolazione.
Siamo ormai consapevoli che le polarizzazioni ci tolgono energia e che la polarizzazione più potente è quella tra ottimismo e pessimismo.
Oggi ritorneremo sul tema in maniera più specifica e per farlo vi proporrò una piccola pratica.

La pratica in questione, molto antica in verità, è quella di crearsi un piccolo luogo interiore dove dialogare con i grandi del passato.
Il vantaggio che offre la fantasia e la cultura è alle volte questo, crearsi un luogo protetto, viaggiando nel tempo e nello spazio per sottrarsi alle manipolazioni, non per negarle ma per comprenderle e contrattaccare.

Ispirati dalla propria fantasia e dalle proprie letture, createvi un vostro luogo interiore; può anche essere più di uno. Potete crearvi più luoghi a secondo di ciò che state leggendo o in base al personaggio con cui volete dialogare o, più semplicemente, lasciate libero sfogo alla vostra reverie (vedi post).

Oggi vi condurrò nel '500 spagnolo in un chiostro poco fuori Salamanca, frequentato dai frati agostiniani.

Lì vi è frate Luis de Leon (1527 o 28 - 1591) che discute con i suoi confratelli.   (A questo autore dedicai già un post in un altro blog firmandomi come Leopardo Illeonito).

Amo oltremodo questo autore, questo fine poeta, vertice della lingua spagnola rinascimentale, teologo di elegante dottrina e mirabile traduttore. Costui non visse sempre nella calma del chiostro, conobbe la durezza del carcere nel quale l'inquisizione lo rinchiuse per anni a causa della sua traduzione dall'ebraico allo spagnolo del Cantico dei Cantici. 
  
Dopo il carcere riprese le sue lezioni universitarie, come se la detenzione non gli avesse fiaccato lo spirito; le riprese con la frase rimasta famosa: Dicebamus hesterna die  (Come dicevamo ieri).
In questo chiostro con frate Luis discutiamo del futuro, ovvero di quale futuro è riservato ai nostri giovani ed al pianeta.

Il dotto frate, camminando lentamente, con le mani appoggiate alla lunga cintura di cuoio tipica del suo ordine, comincia a parlare di uno dei suoi testi più famosi: De los nombres de Cristo (I Nomi di Cristo).
Tra i vari appellativi di Cristo vi è anche quello di: "Padre del secolo futuro", appellativo tratto da un verso di Isaia.

Cristo è anche Padre del secolo futuro, ovvero del futuro, del nostro futuro; ma cosa vuol dire?
Significa che Cristo ci invita a nascere un’altra volta, a rinascere nello Spirito. Ci esorta a rinnovarci, lasciandoci alle spalle tutto ciò che è vecchio e malsano. Ci rivela che è possibile affrancarsi da tutto ciò che ci inchioda nello sconforto.

L'affrancamento è realizzabile grazie ad un impegno che sia un progressivo venir meno del proprio egoismo e della propria chiusura mentale. In questo modo è possibile la costruzione di un futuro che non sia la semplice estensione di un presente che perpetua le attuali ingiustizie.

Il volere che Cristo sia padre del futuro vuol dire veramente credere che sia possibile creare una generazione futura realmente fortunata.  Dove per “fortuna” non s'intende che tutto debba andare di culo ma s'intende una pienezza di sapore- sapere della vita.

Nella calma del chiostro, seppur virtuale, le cose mi appaiono più chiare.
Diventa chiara la disputa tra catastrofisti e negazionisti.
E' una disputa fallace, è una disputa falsa perché porta allo stesso risultato: negare qualsiasi impegno.
Sia l'ineluttabile catastrofe, sia il negare il problema porta allo stesso risultato: disimpegnarsi e non fare mai un c...

Ma a chi giova questo non fare nulla, questo fiaccare la volontà? Cosa si nasconde dietro ciò che è diventato ormai un mantra universale ovvero: "Non c'è futuro per i giovani”?
E poi, ne siamo davvero sicuri?

Certo, l'aspettativa di vita per un giovane americano, magari nero, di un quartiere povero è assai bassa, ma a Napoli e dintorni non è maggiore. Un colpo di pistola sparato da un poliziotto, un overdose, un incidente in auto causato dall'alcol o un proiettile vagante in un regolamento di conti fanno sì che arrivare a trent'anni sia un'impresa.  E per i rimanenti? Si sta prospettando un futuro dove il lavoro sarà pagato un euro e cinquanta l'ora. E nel resto del mondo? Una guerra perenne povero contro povero.

Questa è la prospettiva. Ma da chi viene predicato e messo in atto tutto ciò? Dai vari potenti e dai loro alto-parlanti. Domandiamoci però quale tipo di futuro è riservato ai figli di costoro?
Costoro lo vedono benissimo: spesati a girare il mondo, senza una vera patria se non quella del denaro, e ben foraggiati per ogni evenienza con super stipendi o super parcelle o bustarelle o altro. Questo è il futuro che vedono e che si stanno creando.

Cerchiamo di non essere conformi a tale disegno.
Proviamoci almeno, con la consapevolezza che tale non conformità è davvero scandalosa.
E' scandalosa nel vero senso della parola cioè essere d'intralcio.
Proviamo ad essere pietra dello scandalo, d'intralcio, a codesta idea dominante che il futuro debba esistere solo per pochissimi.

Una vera pratica sapienziale vissuta nel sapore-sapere della vita non può accettare che il futuro sia privilegio di pochissimi.
Il futuro deve essere in Cristo.
Ciò non significa ovviamente un’adesione al Cristianesimo come confessione. Significa abbracciare un vero universalismo al di là delle appartenenze personali.   
Significa un'adesione sapienziale.

Una vera pratica non può rimanere indifferente a questa prospettiva manipolatoria e cercherà per prima cosa di non farsi fiaccare in bipolarismi in realtà gestiti dal pensiero unico.
Pertanto, vi invito ad uscire dalla caverna del pensiero conforme e a viaggiare nel tempo e nello spazio.
Createvi un vostro luogo interiore dove i grandi del passato prendono forme e vita e sono disposti a parlarvi.
E' molto meglio della TV ed esente da canone e da interruzioni pubblicitarie.  


Straf.